29 aprile 2024

IL GRAMSCI DI PASOLINI

 








Domani, 30 aprile 2024, alle ore 18, a Palermo nella Libreria Mille Mondi di via M. Stabile n. 233, ALDO GERBINO e RINO MAROTTA presentano la seconda edizione, rivista ed ampliata, del mio saggio "EREDITA' DISSIPATE Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene Multimedia Bologna 2023.

Il libro in modo rigoroso e documentato mette in luce la radice gramsciana di gran parte dell'opera di Pasolini e Sciascia.

"L’unico antenato spirituale che conta è Marx, e il suo dolce, irto, leopardiano figlio, Gramsci" dirà Pasolini in un’intervista rilasciata ad Alberto Arbasino del 1963.
Ne "Le ceneri di Gramsci" il poeta, davanti alla tomba di Antonio Gramsci, presso il cimitero degli inglesi a Roma, dialoga con le sue spoglie, descrivendo un maggio autunnale, differente dal maggio 1919 quando Gramsci aveva avuto il coraggio di fondare un nuovo giornale con la speranza di cambiare l’Italia. Ora è evidente:
“il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare
tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita”.

Ritorna qui l'eco del monito di Gramsci:

"L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato […], cioè che l’intellettuale possa esser tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, a una superiore concezione del mondo, scientificamente e coerentemente elaborata; non si fa politica-storia senza questa passione, senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico e formale".
(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere)

Forte in Pasolini il senso di sconfitta, la consapevolezza della caduta di ogni illusione quando, passando dalla terza alla prima persona, si rivolge a Gramsci, eroico e solitario, chiamandolo non padre ma “umile fratello”: lo vede giovane nel tempo in cui l’errore era fonte di conoscenza, in “quel maggio italiano” ricco di entusiasmo quando il nobile intellettuale ordinovista indicava la via da percorrere.
E lo sente “confinato” in un “sito estraneo”.
Gli è intorno la “noia patrizia”, quella di una indifferente borghesia; da lontano giunge “qualche colpo d’incudine” degli operai.
Ed è accorata la descrizione della tomba di Gramsci:
"Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani,
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti."

E' prevista anche la partecipazione di LILIANA SINAGRA che leggerà alcune pagine del libro di Francesco Virga.

INGRESSO LIBERO fino ad esaurimento posti.

ANTI-DELEUZE

 


Sergio Benvenuti,  Anti-Deleuze

Vorrei condividere un’esperienza della mia pratica di psicoanalista.

Da anni seguo via online persone che abitano all’estero. Alcuni vivono in paesi attraversati da disastri come guerre e profonde crisi sociali.  Soggetti dall’Ucraina, dalla Russia, dall’Armenia e dalla Siria. Si tratta talvolta di esuli, che vivono lo sradicamento imposto da forza maggiore.

Ebbene, anche quando la guerra infuriava o infuria – come in Ucraina – i soggetti nelle sedute parlano molto raramente, e di sfuggita, della condizione politica critica in cui stanno vivendo. I problemi che li assillano sono più o meno gli stessi che portano pazienti di Roma o di Vercelli – fiaschi amorosi, litigi con la suocera, difficoltà nel trovare l’impiego giusto, la solitudine… La guerra, la politica, è come se non esistessero. Direi anzi che parlano più della guerra in Ucraina pazienti italiani che ucraini.

 

Fui impressionato da una seduta avuta con una analizzante di Kyiv circa due anni fa. A Kyiv si aspettava la sirena che avrebbe avvertito la popolazione di un’incursione aerea russa, ma la signora parlò con foga solo del suo dilemma: se lasciare il marito per raggiungere il giovane amante a Leopoli.

Tengo a precisare che questi miei analizzanti ucraini e russi non sono contadini o persone di poca cultura, sono persone per lo più professori universitari, benestanti, o psicoanalisti a loro volta.

Quanto poi all’inconscio, è ancora meno politicizzato.

 

Lo psicoanalista Serge Leclaire a un congresso portò un sogno di una sua paziente che seguiva nel 1965. Questo sogno ruotava attorno a “le port de Djakarta”, il porto di Giacarta. Proprio a quell’epoca il mondo era sbigottito davanti allo sterminio dei comunisti e di altri indonesiani scomodi incoraggiato dal governo di Giacarta. Ciò si risolse nella morte di circa un milione di persone. Leclaire pensò che forse in questo caso l’inconscio fosse, una volta tanto, impressionato da un genocidio. Ma poi, analizzando bene il sogno, venne fuori che “le port de Djakarta” rimandava in realtà a quel “porc de Jacques”, quel porco di Jacques!, l’amante che tempo prima l’aveva lasciata. L’inconscio è politicamente scorrettissimo.

 

Proprio Leclaire raccontava un aneddoto personale che lo aveva molto colpito. Negli anni 1930 aveva uno zio ebreo in Francia il quale era sconvolto dalla politica di discriminazione degli ebrei iniziata dal governo nazista. La guerra sembrava ancora lontana, e lo zio, pur non essendo implicato in prima persona, era veramente ossessionato da questa politica… Paventava cose assurde, addirittura lo sterminio degli ebrei! I parenti pensarono che il poveraccio stesse esagerando per cui… lo mandarono a farsi curare per un po’ in una clinica psichiatrica.

Questo è un caso in cui la lungimiranza politica coincide con una diagnosi psicopatologica.

 

Il primato dei crucci privati mi ha certamente colpito ma non sorpreso. Perché non ho mai creduto alla predicazione di Deleuze e Guattari.

Come è noto, costoro rimproveravano alla psicoanalisi soprattutto freudiana di voler “familiizzare” tutto, di ridurre tutti i conflitti detti psichici a storie di mamma, papà, inauspicato fratellino, toccamenti di pisellino o patatina tra bambini… Mentre, altroché, i veri problemi inconsci sono cose serie, politiche, lotta di classe, rivoluzione degli oppressi, ecc. Gli schizofrenici, in particolare, vibrano per le sorti drammatiche del mondo.

Deleuze commentò criticamente lo scritto di Freud sul piccolo Hans, il bambino di cinque anni che aveva sviluppato una fobia per i cavalli che allora muovevano le carrozze. Deleuze disse che era un abuso da parte di Freud ridurre la paura-compassione di Hans per i cavalli da traino in città alla sua ambivalenza nei confronti del papà. Macché, dice Deleuze, il piccolo Hans era veramente commosso dalla triste condizione dei cavalli da tiro a Vienna. Insomma, il problema di Hans avrebbe potuto trovare sbocco in una militanza animalista.

 

In sé, la correzione di Deleuze potrebbe anche convincere. I bambini sono capaci di inaudite compassioni così come di stravaganti paure. Anzi, andrei anche oltre: i bambini si commuovono per la sorte di cose inanimate. Quando avevo cinque o sei anni andai a cinema con i miei genitori e fui colpito da una scena del film in cui la bicicletta del protagonista finiva sfasciata. Quella bicicletta mi impietosì e la sera mi misi a piangere per il suo triste destino. Ecco una sfida alla teoria così popolare dei neuroni specchio…

Eppure nella realtà clinica accade proprio l’opposto di quel che auspica Deleuze. L’analista, avendo a che fare con analizzanti che vivono in paesi magari a lui stesso ignoti, si augura che loro portino elementi finalmente nuovi, etnici, socialmente idiosincratici, vistosamente non-eurocentrici. E invece si confronta sempre con le solite storie banalmente “freudiane”. Non manca di esserne deluso. Le differenze storiche ed etniche risultano alquanto epifenomeniche. L’analista, anche se animale politico, deve convenire obtorto collo che “tutto il mondo è paese”, perché gli esseri umani sono fatti della stessa stoffa infantile.

 

Così, credo che sia molto più verosimile la tesi promossa da George Lakoff (in Moral Politics): che i grandi conflitti politici, quelli che portano anche a distruzioni e miserie immani, sono una proiezione espansiva, cosmica, delle nostre primitive relazioni con mamma, papà, la balia, la zia… In analisi, emerge la straordinaria pregnanza del Piccolo Mondo Antico.

Mi chiedo se certi colleghi possano portarmi esperienze ben diverse.

Articolo ripreso da: https://www.leparoleelecose.it/?p=49232

27 aprile 2024

IN MEMORIA DI ANTONINO UCCELLO

 









Con Danilo Dolci


Una foto del Seminario svoltosi nel Centro di D. Dolci nell'agosto del 1975

IN MEMORIA DI ANTONINO UCCELLO

 STUDIOSO DI TRADIZIONI POPOLARI SICILIANE

 

La foto che riprende un momento del seminario condotto da Antonino Uccello, nell'agosto del 1975, nel Centro di Formazione di Danilo Dolci, ha spinto anche il mio carissimo amico Nicolò Messina, che ho incontrato per la prima volta proprio in quell'occasione, e che è riconoscibile nella stessa foto proprio accanto all'indimenticabile studioso di tradizioni popolari siciliane, a scrivere un breve ma intenso ricordo dell'uomo e del contesto storico in cui abbiamo avuto la fortuna di incontrarci. 

Di seguito lo pubblico insieme ad una nota che avevo già postata in questo archivio della mia memoria. (fv) 


Nomina sunt…

I nomi – si sa – sono consequentia rerum. Nel caso di Antonino Uccello, credo, anche i cognomi.

Di uccello, il profilo; lo slancio di volo, la leggerezza, l’agilità, la leggiadria dei modi, della parola, dell’intelligenza. È questa l’immagine che conservo di lui, del lungimirante fondatore della Casa Museo di Palazzolo Acreide (la Casa di Icaro), tra i primi esempi di musei vivi, non cimiteriali; dei suoi seminari di antropologia applicata (in chiave anche educativa), ai quali ero solito partecipare, negli anni trascorsi a Trappeto in preda ad astratti furori vittoriniani, nel cenobio laico del Borgo, al Centro di formazione di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori, dove per tre anni ho vissuto e lavorato.

E ancora lo scampolo del ricordo di una conversazione illuminante, a cena, nella spaziosa, scandinava mensa del Centro, conversazione da cui trapelava, a beneficio di quanti sedevamo al suo tavolo, la sua militanza comunista oltre le etichette, le tessere, i dogmatismi. Più o meno l’affermazione, non letterale, ma parafrasi: «E ci sono anche – basta! – i pensionati della Rivoluzione». L’allusione era nello specifico a Fidel Castro (auto)convertito già allora in santa icona castrista. Ma gli passavano per la testa – si intuiva – altri pensionati, indisponibili a mettersi in discussione, ai quali dire basta, in Italia e altrove, che campavano (e campano) di rendita, quella da loro stessi accumulata (nel migliore dei casi) o accumulata da altri, da altre generazioni. In quel tempo – erano i secondi anni Settanta del Novecento (Berlinguer a Roma, Occhetto alla segreteria del PCI siciliano) – esistevano, coabitavano entrambi. Poi sarebbe stato l’occaso del sol dell’avvenire, la slavina dei dilapidatori del legato altrui.

Come nelle “belle” storie delle aristocrazie fondiarie meridionali medievaleggianti, se non medievali, fin oltre il secondo dopoguerra mondiale; storie loro e di qualche sparuto imprenditore e dei loro epigoni arrembanti, borghesi e no. Dai Gattopardi ai Calogero Sedara…: generazioni che creano, altre che consolidano, altre ancora che sperperano e distruggono! Il trionfo del capitalismo (vecchia e nuova maniera)?

 (Nicolò Messina)

 

*****

 

Ho conosciuto Antonino Uccello al Centro Studi e Iniziative di Partinico nell'agosto del 1975. Io ero approdato al Centro, diretto da Danilo Dolci,  qualche mese prima, appena laureato in storia e filosofia con una tesi su Antonio Gramsci. Il fondatore della Casa-Museo di Palazzolo Acreide (SR) ogni agosto veniva da noi a tenere un Seminario. Quell'anno il tema era: MUSICA POPOLARE, FOLK E PROFITTO. Fresco com'ero della lettura delle note sul FOLCLORE scritte dal  grande pensatore sardo nei suoi QUADERNI DEL CARCERE, trovai una documentatissima conferma dell'interpretazione gramsciana del folclore nel ricco, artigianale lavoro di ricerca di Antonino Uccello. Legammo immediatamente e alla fine del seminario volle conoscere il mio paese natale, Marineo,  per vedere LA DIMOSTRANZA che proprio quell'anno, con la regia di Accursio Di Leo, veniva riproposta. Ricordo ancora la sua delusione: "QUESTA NON E' CULTURA POPOLARE. Questa è roba scritta da parrini!". La sua delusione si stemperò solo quando incontrò mia madre che regalò ad Antonino antiche ricette di dolci pubblicate l'anno successivo nel libro PANI E DOLCI DI SICILIA, Sellerio 1976.

Il mio ultimo incontro con Nino avvenne nella sua casa-museo di Palazzolo Acreide nel novembre del 1978. Mi accolse come un fratello e mi regalò l'ultimo suo libro, ancora fresco di stampa Risorgimento e società nei canti popolari siciliani.  

Francesco Virga


Mi piace ricordarlo oggi con questa testimonianza dell'archeologo
Giuseppe Voza, raccolta in un bellissimo libro del nipote del Maestro che ho avuto il piacere di recensire quando uscì  Cfr: http://cesim-marineo.blogspot.it/2012/06/per-antonino-uccello.html



“Uno dei motivi per cui, fra tutti i Paesi della Provincia, Palazzolo Acreide è al vertice della graduatoria del mio personale indice di gradimento, è certamente dovuto al fatto che l’ho sempre collegata ad Antonino Uccello e alla sua Casa museo. Lo conobbi alla fine degli anni Sessanta (del Novecento) quando, giovane archeologo della gloriosa Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale, sotto la guida del Maestro Bernabò Brea, conducevo delle campagne di scavo sul suolo urbano dell’antica Acre. Furono anni di felici esperienze scientifiche e di grandi, prolungate occasioni di conoscenza di un territorio ricco non solo di ragguardevoli testimonianze del passato, ma, soprattutto, di un tessuto umano depositario di un bagaglio enorme di tradizioni e saperi, ma anche dotato di singolare vitalità e simpatia. Antonino Uccello ne era l’esempio tipico e rappresentativo, uomo che nutrì profondo amore per la sua terra di cui conosceva, possedeva tutti i grandi, silenziosi, antichi travagli della vita, del lavoro, i modi antichi, ma sempre vivi del pensare, del fare, del dire. Profondo conoscitore non solo della sua terra ma anche dei suoi uomini ebbe sempre vivo il desiderio della scoperta, senza mai mostrare atteggiamenti di accademica sapienza, cosa che, unita al tratto gentile e umano di sua natura, gli consentiva di accedere più facilmente non tanto agli oggetti della cultura materiale, scopo non secondario delle sue ricerche, quanto alle confidenze, ai racconti, ai canti, ai ‘segreti’ del lavoro, in ambienti umani per loro natura distanti e silenziosi. Egli veniva a trovarmi sovente sullo scavo, accompagnato dalla signora Anna e lo ebbi spesso come attento e silenzioso testimone delle mie esperienze, desideroso di conoscere i modi del ricercare nel lavoro altrui. Ebbi, così, modo di apprezzare lo spessore del pensatore, dell’uomo portatore di ideali scientifici, umani, sociali. A questi ultimi era particolarmente attento: egli era costantemente preoccupato dal fenomeno di sottovalutazione, di dispersione e distruzione di quel delicato patrimonio fatto di oggetti, di tradizioni, di usi, di credenze, di gusto, espressioni insostituibili del mondo contadino entrato in crisi dagli anni Cinquanta in poi quando si verificò un profondo cambiamento nella vita e nella storia del nostro Paese. Fu allora che Antonino Uccello incominciò a farsi carico di un’operazione di raccolta e salvaguardia di ogni possibile testimonianza relativa ala mondo rurale e artigianale in Sicilia e, in particolare, nel mondo Ibleo. Testimonianze che egli, nei suoi studi e nelle sue presentazioni, non esibì mai come raccolte di collezioni, ma come strumenti ed espressioni di un particolare modo di lavorare, di produrre, di creare. Cosa che si coglie soprattutto nell'interesse di Antonino Uccello per quello che si definisce patrimonio culturale immateriale: le voci, i canti, i suoni, espressioni della sensibilità, dell’anima umana, insostituibili strumenti di riconoscimento della identità di una comunità. Questo modo di concepire e di essere attento nella raccolta di testimonianze del passato non poteva non comportare nella mente di Antonino Uccello un pensiero costante: quello di proporre le proprie raccolte in una maniera nuova, viva, attiva. Nacque così l’idea della Casa museo alla cui creazione Egli si dedicò con grande e appassionato lavoro. E alla Casa museo devo uno dei ricordi che più mi legano a lui. L’uomo che aveva raccolto tutto quanto poteva da un territorio di cui conosceva profondamente le radici culturali, storiche, sociali, passava ora a mostrare quanto aveva acquisito, con uno straordinario lavoro di recupero sistematico, a riproporre, come per magia, i momenti e le attività del mondo rurale e artigianale usando sapientemente e appropriatamente gli oggetti raccolti. Faceva così vivere e trasmetteva con gli oggetti saperi, tradizioni, usi, religione, gusto artistico di un mondo che la società andava spegnendo sotto l’onda del consumismo. Le sue mostre furono sempre momenti di comunicazione irripetibili. Ricordo con particolare emozione quando, approssimandosi alla fine, mi pregò vivamente di interessarmi personalmente all'acquisizione all'Ente Pubblico che rappresentavo, le sue collezioni, preoccupato com'era che andassero disperse e non potessero più continuare a svolgere le funzioni per cui le aveva raccolte per tutta la sua vita. Nel 1983 riuscimmo ad assolvere all'impegno preso in quell'occasione assicurando alla Pubblica Amministrazione la Casa museo e le collezioni Uccello, consci di aver reso omaggio a chi è rimasto un raro esempio di Uomo, di Studioso, di Maestro.” (Giuseppe Voza)

 Testimonianza  tratta dal libro di Paolo Morale Uccello, Le rotte di Icaro

 

______________________________________________________________________________________________________

 

14 giugno 2012

PER ANTONINO UCCELLO

 

     Mi sembra un miracolo che la Regione Siciliana, come istituzione, riesca  a dare spazio al vero e al bello. Ma di fronte al libro, ancora fresco di stampa, intitolato Le rotte di Icaroedito dalla Casa museo Antonino Uccello di Palazzolo Acreide, per conto dell’ Assessorato Regionale ai Beni Culturali, comincio a credere ai miracoli.

        Gaetano Pennino ha curato con sapienza e amore il libro, frutto di un lavoro collettivo, anche se viene indicato come autore Paolo Morale Uccello, nipote del compianto Antonino. Qualche mese dopo ho avuto il piacere di incontrare PAOLO MORALE. E' stato particolarmente emozionante per me rivedere in lui alcuni tratti somatici del nonno. Ha partecipato, insieme al Prof. Clemente e a Gaetano Pennino, alla presentazione de Le rotte di Icaro che si è tenuta al Museo Internazionale delle Marionette di Palermo.
Il suo intervento è stato bello e appassionato.  Ed io mi scuso con lui per averlo sottovalutato.

 Il prezioso volume, corredato anche da inedite fotografie, contiene le testimonianze di amici e studiosi di Antonino Uccello, tra cui Vincenzo Consolo, Vittorio De Seta, Luigi M. Lombardi Satriani, Nino Privitera ed Ernesto Treccani. Documentate  e appassionate la  Prefazione di Pietro Clemente e l’Introduzione del Pennino. Il libro è arricchito, infine, dai frammenti di un epistolario, che meriterebbe di essere recuperato per intero, e da quattordici poesie inedite.

 

 

        Siamo stati amici di Antonino Uccello e torneremo a parlare dell’uomo e della sua opera. Oggi  voglio farlo   con tre delle  sue poesie inedite – che da sole spiegano l’ostilità con cui venne trattato in vita da chi aveva potere – e con le parole di Vincenzo Consolo  che, come sempre, vanno al cuore delle cose.

 

 

 

Industrializzazione a Priolo

 

Prendi la fuga

la fuga tesa

del gabbiano innocente

 

hanno elevato torri

di acciaio e ghisa

forche alla solitudine

brine di smog fiamme

di neon e bitume

sulle notti marine.

 

 

L’ opulenza

 

L’opulenza non è mai sazia

alza agguati tesse inganni

cova vermi per altre linfe

nel Palazzo dei Normanni.

 

 

 

 

A un esimio Maestro

di un Ateneo siciliano

Dedica

 

Gufo accademico

buio pidocchio

di libri altrui

covo di tarme

e moccio

di ranocchio.

 

-------

 

ANTONINO UCCELLO NEL RICORDO DI VINCENZO CONSOLO

 

Vincenzo Consolo ha lasciato un ritratto indimenticabile di Antonino Uccello in Le pietre di Pantalica evidenziando, tra l’altro,  come la molla principale  del suo agire non fosse tanto la nostalgia quanto il desiderio e la speranza di riscatto. Nel volume Le rotte di Icaro, curato dal Pennino, lo scrittore di Sant’ Agata di Militello torna a parlare dell’amico affermando:

 

“Il  1948. Insegnava allora Antonino a Cantù, in Lombardia. Ed era per lui, come per tutti gli emigrati, un andare e tornare insieme all’eroica moglie Anna, dalla Lombardia alla Sicilia, a Canicattini Bagni, andare e tornare, in viaggi di due giorni, su treni lenti, ansimanti. Ed è allora che Antonino, nei suoi ritorni, vede e dolora. Vede quel suo mondo che man mano moriva, spariva. Cominciavano ad andare via i contadini, dopo il fallimento della riforma agraria, ad abbandonare le loro case, i loro campi, e buttavano negli immondezzai utensili e attrezzi di lavoro. Quindi, con amore, passione e furore Uccello comincia a raccogliere quei relitti di un gran naufragio, quegli oggetti del mondo contadino che erano anche linguaggio, storia, memoria. Per anni e anni, peregrinando per la Sicilia, raccoglie tutto quanto può di quello che era il suo mondo, la sua memoria, l’ispirazione della sua poesia, e riesce a creare quella Casa museo di Palazzolo Acreide, quel museo della nostra memoria, a crearlo contro il disinteresse del potere politico e l’ostilità degli accademici.

[…] Non riscatto da allora, ma sempre più degrado, alienazione, ignoranza, stupidità e volgarità, in questo nostro presente di fascismo fascista.

       Ah Pasolini, ah Uccello, spero, da questo nostro inferno che voi possiate andare per campi Elisi tra i fiori turchini del lino, nel lucore dorato delle lucciole. Spero che voi ignoriate l’abominio e la vergogna di questo nostro attuale Paese." (Vincenzo Consolo)

 

 

 

L’ autobiografia di Antonino Uccello, pubblicata un anno dopo la sua morte, si chiude con queste parole:

“ Un giorno d’estate sopraggiunse da Priolo una comitiva di dirigenti della Montedison per visitare la Casa-museo. Prima di accomiatarsi uno della comitiva si staccò e mi disse: avevate questa ricchezza e avete chiamato noi per distruggerla. Mi riportò al lontano dopoguerra. Intorno al 1948 dovetti tornare da solo dalla Lombardia a Palazzolo per pochi giorni, in pieno aprile. Attraversata Augusta con le sue ancora intatte saline – i mucchi di sale, le sequenze di tegole per coprirli, i riquadri di mare che specchiavano scorci di cielo – nei pressi di una delle tante stazioncine, quando il treno sembra quasi sostare, m’apparve dal finestrino un campo di lino coi suoi fiori turchini, come fosse una proiezione dello Jonio. I contadini degli Iblei, che allora rare volte nella vita avevano la possibilità di vedere il mare, lo definivano u linu ciurutu, un campo di lino in fiore.

         Forse pensavo di rivivere per me e per gli altri questa antica, incontaminata bellezza, in un tempo giusto con amore, come contrassegnava Bach l’esecuzione di certa sua musica.

Abbiamo vissuto e viviamo la vicenda di questo museo in sincronia col nostro tempo, nel contesto di una società contraddittoria sospinta da mutamenti in profondo, che giorno dopo giorno si carica di sempre nuove tensioni e violenze. Per questo forse mi vengono in mente alcuni versi di una poesia di Brecht dedicata A coloro che verranno:

Quali tempi sono questi, quando

discorrere d’alberi è quasi un delitto,

perché su troppe stragi comporta silenzio!

Il poeta concludeva:

Oh, noi

che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,

noi non si potè essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora

che all’uomo un aiuto sia l’uomo,

pensate a noi

con indulgenza.

Antonino Uccello, La casa di Icaro

  

 

N.B.  Attraverso il motore di ricerca interno al blog potete trovare altri ricordi di Antonino Uccello e alcuni suoi testi.

 

PS: Tramite WhatsApp ho appena ricevuto questi bei commenti da un gruppo di cari amici:

"Caro Franco, c'era tutto un clima particolare in quegli anni. Tu parli specialmente del 1975. Io allora iniziavo a frequentare il "clan" Buttitta, non solo per motivi accademici ma anche per interessi culturali. Gramsci e le sue note sulla cultura popolare erano allora colazione giornaliera. E poi quel "Folklore e profitto" di Lombardi Satriani, tutto sottolineato, assieme a "Folklore e dinamica culturale" di Lanternari. Antonino Uccello l'ho conosciuto in occasione di un seminario sul teatro popolare organizzato in Facoltà da Beno Mazzone. Venne anche Ciccino Carbone . Il dibattito finale si trasformò in un appello , da parte di Uccello, per la salvaguardia del presepe popolare. Tu parli della "Dimostranza" di Marineo, io ti posso parlare dei miei primi approcci critici al "Mastro di Campo" di Mezzojuso. Ti dirò che anche nel mio paese venne sperimentata la "regia" di Accursio Di Leo: non fece danni, si limitò a qualche suggerimento.Come vedi, ci si abbeverava alla stessa acqua. Tu senz'altro più assetato...Non voglio ricordare questo passatoper nostalgia. Ancora adesso, un certo rigore culturale, frutto di quegli anni, mi accompagna." (Pino Di Miceli)

"Nel 1975 lavoravo nelle Ferrovie dello Stato in Calabria, pomeriggio mattina e notte".(Santo Lombino)

 Santo ricorderà che lo andai a trovare qualche tempo dopo a Lamezia Terme...

Sapete quanto mi dava il Centro Studi e Iniziative di Partinico per il mio lavoro a tempo pieno nel Borgo di Trappeto? 60 mila lire al mese! Ma allora ci bastavano anche perchè ci illudevamo che la Rivoluzione fosse alle porte...(fv)